Oltrepò Pavese al bivio: vecchia strada o strada nuova? Storia di un territorio di qualità che non genera valore e rischia di diventare una colonia. Serve un “patto di territorio”
L’Oltrepò Pavese della vite e del vino è di fronte a una scelta importante per il proprio futuro, ma per farla deve saper rileggere il passato, a partire da quello recente. Il tutto non si tiene. Non puoi essere carne e pesce. Non puoi essere “menù di lavoro” 15 euro (bevande incluse) e ristorante stella Michelin. Non puoi essere vinello in cisterna per far ricchi gli altri e nel contempo grandi vini, storia e distintività nel calice, nelle carte dei vini più blasonate e sugli scaffali delle enoteche d’Italia e del mondo. Nel marketing insegnano che per generare valore devi ricordare che la tua immagine è quella che si associa al prodotto che posizioni sul mercato al livello più basso.
La storia degli ultimi trent’anni insegna questo all’Oltrepò Pavese, territorio vitivinicolo che non corre alla pari di altre zone rurali svantaggiate d’Italia ma che al contrario ha le migliori frecce all’arco, come peraltro dimostrano gli ultimi anni di critica enologica e di edizioni delle guide vini nazionali ed internazionali, soprattutto per merito di alcuni produttori privati diventati marchi che hanno riacceso le luci sulla via della qualità. Eppure nel suo insieme l’Oltrepò del vino appare una terra senza pace. E’ il frutto di scelte sbagliate? No, è il frutto soprattutto di “non scelte”. Fino ad oggi è mancato il coraggio di attuare una strategia territoriale, isolando chi non vuole contribuire ad attuarla un po’ per viltà un po’ per interessi di bottega. E così ai marchi privati manca sul mercato il vento nelle vele che solo una zona di produzione forte di reputazione e distintività può dare (che vale almeno il 30% in valore) mentre alle cantine cooperative non è data la possibilità di pagare i produttori di sola uva quanto meriterebbero. Proprio dal modo di fare cooperazione sul territorio dipende metà del risultato.
L’Oltrepò deve smettere di guardare il mondo dal retrovisore, benché ne avrebbe titolo perché in particolare dalla seconda metà del 1800, poi negli anni dell’ultimo dopoguerra e fino agli anni ’90 ha scritto pagine memorabili della storia del vino italiano, a tutti i livelli. Poi c’è stata una metamorfosi culturale, economica e produttiva. Sono iniziati gli anni del marketing vero, anche in agricoltura e vitivinicoltura, gli anni del fare impresa e non solo del produrre e vendere: a questo punto qualcosa si è rotto e sono iniziati i problemi. Carlo Boatti, patron di Monsupello, diceva: “Oltrepò, una terra di contadini diventati imprenditori”. Non sempre o, perlomeno, non con gli stessi risultati. A un certo punto della storia all’Oltrepò Pavese è mancato un leader.
Un territorio abituato a vendere tanto e a vendere tutto ha lasciato indietro il “vendere bene” ed è stato retrocesso in termini di credibilità. In vent’anni si è progressivamente scivolati nella cooperazione lungo il crinale del vino “di tutti i colori”, per usare un’espressione imprecisa ma che rende l’idea. Le aziende più grosse sono diventate stabilimenti al servizio di reti commerciali e imbottigliatori, perlopiù di fuori territorio, perdendo di vista che quella sarebbe stata la strada per vuotare le cantine ma non per generare il valore del vino e delle denominazioni che è l’unica via per far crescere i prezzi delle uve, dei terreni ma anche dell’indotto e dell’economia locale più in generale. L’Oltrepò secondo alcuni ha avuto i suoi “cinesi” in casa, mentre altre aziende, quelle piccole ma illuminate, hanno remato controcorrente lavorando sui rispettivi marchi privati giungendo, tra investimenti, pensiero e sacrifici, a una maturità riconosciuta e consacrata. Ma al di là delle degustazioni, delle vetrine, delle passerelle e dei talk show che parte hanno avuto i marchi di successo nel dettare la linea alla politica del vino territoriale?
L’Oltrepò deve smettere di raccontare che produce oltre il 60% del vino della Lombardia (soprattutto un fiume di IGT) e di narrare storie ingiallite, per riattualizzare la sua autorevolezza attraverso una rivalorizzazione delle sue DOC (da sfoltire) e della sua DOCG spumantistica (alla quale occorrono numeri, rete distributiva e magari anche un nome che si stacchi dai vini primo prezzo che si chiamano allo stesso modo) in bianco e in rosa.
L’Oltrepò ha il Pinot nero, da cui nascono il Metodo Classico più longevo ed emozionante d’Italia e vini rossi che non temono confronti con le più costose etichette francesi, ma anche tante altre produzioni di livello da promuovere. Ha il dovere di essere artefice del proprio futuro e del proprio destino, smettendo di dipendere. Il domani del territorio dev’essere costruito da chi rappresenta il territorio, da chi vive il territorio, da chi è il territorio. Per generare valore servono valori. Questa partita va condivisa e fatta propria dal mondo politico a ogni livello, dai sindaci ai parlamentari passando per Regione Lombardia e fino ad arrivare al ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, coinvolgendo le associazioni di categoria, in questi ultimissimi anni più spettatrici che interlocutrici attive e incisive, e da tutti coloro che vogliono il meglio per una terra benedetta da Madre Natura, ma talvolta maledetta dall’uomo.
Si è raccontato a lungo che ognuno fa il proprio mestiere ma credo sia solo una formula magica da affabulatori. In un sistema maturo non bisogna essere autarchici, certo, bisogna aprirsi anche a nuovi investitori, ma a quelli intenzionati a generare ritorni a lungo termine al territorio, fermo restando che la rotta e il timone devono stare saldamente nelle mani di soggetti territoriali e non extra territoriali. Amare una terra non significa pagare bene qualche vendemmia, ma aiutarla a rialzarsi e correre trattenendo il maggior utile sul territorio. Le zone di produzione italiane che ce l’hanno fatta non hanno seguito altri percorsi o pifferai, non hanno aperto sistematicamente a chi voleva “rompere” ma a chi voleva “unire” il fronte. Le divisioni nella storia, non solo del vino, hanno sempre permesso di comandare a chi aveva meno argomenti, a chi non spingeva a sognare ma a galleggiare di anno in anno, seguendo correnti e momentanee convenienze. L’Oltrepò Pavese non deve più cadere nella trappola, perché così rischia solo di tornare in vecchie e malsane paludi. A chi si è risvegliato dal sonno, bisogna ricordare che non siamo più nel Medioevo ma nel 2024. Il vino su gomma, che se ne va in cisterna, appartiene a un’altra epoca storica che dovrebbe ergersi nella memoria a imperitura memoria di cosa non fare per avere fortuna. Questa è l’era dei grandi, dei leader e della strategia d’impresa, dell’impegno per il bene comune, delle storie emblematiche, non del vino svenduto come il riso cinese. I “pochi, maledetti e subito” hanno condannato l’Oltrepò relegandolo a un’immagine indegna. Ci sono terreni i cui valori all’ettaro devono e possono decuplicarsi, ma potrà accadere solo tenendo la barra dritta, preferendo alla cosa più facile la cosa giusta.
La prima? Ridurre immediatamente e per sempre le rese delle produzioni IGT a ragionevolezza. Togliendo di mezzo l’uva che non c’è e non potrà mai esserci si darà un segnale all’Italia e si proteggerà la nave del territorio dai galeoni dei pirati, altrimenti dopo l’ennesimo abbordaggio resteranno solo le scialuppe di salvataggio.
La seconda? C’è un punto da sempre eluso: in Oltrepò è mancata e continua a mancare una regia nella programmazione strategica sui nuovi vigneti. Nonostante le annate scarse il territorio produce ancora troppa uva che non serve e lo fa con vigne di varietà diversa impiantate alla rinfusa, senza una precisa zonazione. Bisogna indicare cosa piantare e farlo fare secondo la vocazionalità delle diverse vallate, dei diversi terreni, delle esposizioni e del microclima. Se il viticoltore oggi si avvale di finanziamenti erogati occorre che il meccanismo premiante, quello che inietta soldi pubblici a calmiere degli investimenti aziendali, scatti solo per chi sostiene un progetto territoriale, scientificamente definito e scandito per logiche di mercato per il bene comune. Piantare nuovi vigneti che sono inutili al percorso di valorizzazione non solo non è efficace ma diventa controproducente. Bisogna lavorare su ciò che si può vendere. Langhe e Prosecco insegnano.
Senza un “patto di territorio” che valorizzi, l’effetto domino della crisi si farà ancor più sentire in termini di spopolamento e depauperamento dei borghi del vino, di problemi dell’immobiliare, di mancata crescita della ristorazione e dell’accoglienza locale settori che, al contrario, nelle zone vinicole di successo, con le idee chiare e al riparo da scandali, anno su anno, mietono consensi, nuovi clienti di tutti i segmenti, utili e crescita.