LETTERA APERTA AL MINISTRO FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – Mondo del vino, 2023 da dimenticare e un futuro da riscrivere…
Da un anno rompicapo, com’è stato il 2023 appena conclusosi per il mondo del vino italiano, devono nascere consapevolezze, riflessioni e strategie diverse per il futuro. Facendo le cose sempre allo stesso modo i risultati nel prossimo futuro non si vedranno. C’è un cubo di Rubik da rimettere a posto, su ogni suo lato, per non perdere competitività, crescita, livelli occupazionali e redditività economica. Deve cambiare anche la politica in Italia nel suo relazionarsi con il mondo del vino perché la filastrocca “qualità”, “storia” e “identità” alle fiere e ai meeting vale poco se non viene sostenuta da scelte di campo. La prima, auspicabile, è togliere l’incudine della burocrazia dal sistema impresa che falcidia soprattutto le attività a conduzione familiare. Occorre poi trovare al più presto il modo di facilitare l’accesso a bandi e finanziamenti soprattutto a vantaggio di quelle imprese, spesso di piccole e medie dimensioni, che sono “luce” e autorevolezza per i rispettivi territori vitivinicoli. Bisogna poi rafforzare i controlli anti contraffazione in maniera seria e responsabile, perché così i controlli sulla carta e a campione si fanno, ma sostenere che con una coperta così corta si riesca a vigilare davvero sul complesso sistema delle denominazioni italiane è una barzelletta.
L’Italia deve ragionare sul vino a valore, tema che per tanto e troppo tempo ha rifuggito facendo un’inutile e controproducente gara muscolare a volumi e fatturati, pur con utili netti molte volte in calo. Nel 2023 il nostro Paese ha perso la sua posizione di maggior produttore di vino al mondo, sorpassato dalla Francia che è tornata in testa alla classifica per la prima volta in 9 anni. È quanto emerso dalle ultime stime dell’Organizzazione internazionale della vigna e del vino che ha segnalato come la produzione mondiale sia scesa al livello più basso dal 1961: si tratta di un record negativo da oltre 60 anni, causato anche dal fatto che i vigneti colpiti da eventi climatici estremi, hanno limitato i volumi. E’ stata di fatto una delle vendemmie più scarse dal secondo Dopoguerra, falcidiata dal flagello della peronospora che a macchia di leopardo ha avuto una recrudescenza. Il 2023 ha fatto inoltre registrare dati di cantina poco incoraggianti con un record di giacenze che spiegano perché il vino “primo prezzo” non salva nessuno ma, anzi, talvolta rischia di spostare i giovani consumatori e gli appassionati più preparati verso altre scelte, magari anche verso la birra artigianale o etichette estere. A contribuire alle difficoltà e alle contrazioni è stata anche la nuova guerra tra Israele e Hamas nella striscia di Gaza dopo quella della Russia in Ucraina, che aveva già portato i costi energetici alle stelle, salasso anche per il mondo del vino. In flessione nell’anno appena conclusosi anche le esportazioni: il tappeto elastico dei consumi interni, anch’essi in deciso calo, non c’è stato. Nel 2023 anche l’Ocm vino (gli aiuti dell’Unione Europea sulla promozione nei paesi terzi) ha avuto una gestazione problematica e una gestione complessa lato imprese.
Risultati a tinte fosche, insomma, che hanno smentito le attese anche dei colossi del vino italiano. A maggio 2023 l’Area Studi Mediobanca nella sua indagine annuale sul settore vinicolo in Italia – focus su 255 principali società di capitali italiane con fatturato 2021 superiore ai 20 milioni di euro e ricavi aggregati per 10,7 miliardi di euro, pari all’89,3% del fatturato nazionale del settore – aveva intervistato gli operatori. I maggiori produttori di vino si aspettavano per il 2023 una crescita delle vendite complessive del +3,3% e un export a +3,1%. Beato chi potrà dire di esserci riuscito davvero, ma i più registreranno un segno meno. Tutto questo mentre è risultato in ridimensionamento pure l’e-commerce: nel 2022 le vendite online delle principali imprese vinicole si erano già ridotte del 3,7% (2,1% del fatturato nazionale) secondo Mediobanca.
Da dove ripartire dunque? A mio avviso da tre consapevolezze. Primo: la nuova gara non sarà più fatta a suon di volumi ma di distintività, valore, cultura ed emozione. Sarà una gara di brand, privati, e territoriali, ovvero di denominazioni capaci di diventare volano e trend, non solo bollini di carta o disciplinari che non disciplinano. Secondo: i fondi alle aziende vanno ripartiti in maniera differente e più selettiva, monitorando risultati “ex ante” ed “ex post” in una maniera più seria e credibile (i fondi sembrano tanti ma sono pochi e andrebbero dati a chi sa farli fruttare in termini d’immagine e capillarità di mercato Ndr). Terzo: bisogna ragionare sul produrre di meno, solo nelle zone vocate per potersi davvero permettere di affrontare sfide globali in qualità assoluta, elidere “denominazioni orpello” che sono inutili patacche da ostentare nei discorsi nei bar di provincia piuttosto che apripista e forza dirompente sui mercati, specie quelli che contano per l’economia di settore. A fare da cornice a questi tre capisaldi vi è poi un altro tema che andrebbe inserito tra le priorità: l’enoturismo. In Italia al momento il settore va avanti pressoché da solo per iniziativa degli imprenditori, con pochissimi incentivi rispetto alle performance in crescita anche in questi ultimi anni difficili. Chissà cosa accadrebbe se si sfornassero strategie di empowerment serie nel dialogo con le regioni e gli esperti del settore…
Appello al ministro Francesco Lollobrigida
Voglio lanciare un messaggio al ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida: aiutate i territori rurali italiani a fare rete d’impresa alla produzione, sul modello francese e anche sul modello spagnolo. Far ripartire la cooperazione perché gareggi per qualità, valore e non per numero di bottiglie – come serve all’alba del 2024 – non solo è necessario ma fondamentale. Quando in Italia la cooperazione è nata il vino era una bevanda, oggi la sfida non è fare vino buono ma farlo percepire per ciò che vale ai buyers e ai consumatori. Infine serve riavviare un dialogo vero con i piccoli produttori: anticamente si diceva che nella botte piccola stava il vino buono. Non è più solo così, ma il grosso dell’identità presente e futura del vino italiano dipenderà dall’ossigeno che si sarà in grado di dare alle piccole imprese che con il sacrificio di generazioni hanno fatto dell’Italia del vino un valore riconosciuto e da esportare. Caro ministro, sono soprattutto i vignaioli controcorrente – uomini coriacei e un po’ fuori dal tempo e dalla modernità che piace ai “commercianti di codici a barre” – quelli che ci hanno passato il testimone. Parlo di talenti unici e di fuoriclasse come il compianto Lino Maga da Broni, in Oltrepò Pavese, padre del vino Barbacarlo, scomparso un anno fa. Non bisogna far crescere il vuoto, non c’è da sostenere chi vende bottiglie come fossero bulloni. Bisogna tramandare gli insegnamenti e la storia che solo le grandi etichette con dietro una filosofia, un pensiero, un percorso in salita, una storia e un’anima grande sanno testimoniare, a beneficio dell’intero comparto. Il vino italiano ha bisogno d’icone e di stile. Puntate su chi fa filiera e impresa, dalla vigna alla bottiglia, contro la spersonalizzazione che deriva dal comportamento di chi fa solo “commercio di liquido”. I commercianti li trovi in tutto il mondo, i grandi vignaioli no: non facciamoli estinguere.