Regno Unito, il “boom” del bere italiano
[intro-text size=”25px”]Il Regno Unito, fino a poco tempo fa tempio incontrastato della birra, sta imparando a bere il vino italiano. Negli ultimi 5 anni, complice la rapida ascesa del Prosecco, si sta assistendo ad una vera impennata del consumo di bollicine. I francesi, però, sono leader del mercato a valore, visto che l’Italia appare fredda e rinunciataria rispetto alla costituzione di un condotta nazionale del Metodo Classico da esportare tutti insieme, al di là di provincialismi e campanilismi.[/intro-text]
Un rapporto realizzato dall’Ice (istituto per il commercio estero) e dalla sezione per la promozione del commercio dell’Ambasciata d’Italia, sottolinea come il mercato britannico – competitivo e aperto, data la necessità di importare da tutto il mondo a fronte di una produzione locale di fatto residuale – si consolida ormai come il terzo sbocco mondiale per il vino made in Italy, secondo in Europa dopo Stati Uniti e Germania, con un valore annuo indicato per il 2017 a 763 milioni di euro. In termini quantitativi, la penisola ha superato tra i fornitori del Regno persino la Francia, in passato semi monopolista, con oltre 303 milioni di tonnellate di prodotto esportate l’anno scorso contro gli oltre 221 milioni australiani, i 189 circa francesi, i 135 spagnoli e i 111 milioni provenienti dai vigneti degli Usa. In termini di valore i francesi sono invece al primo posto per valore medio a scaffale o nelle carte dei vini delle sue referenze, in particolare per quanto concerne lo Champagne, con ricavi pari nello stesso 2017 a 881 milioni di sterline contro i 628 dell’Italia, i 256 della Nuova Zelanda, i 243 dell’Australia o i 238 della Spagna. L’indagine di Ice spiega però che la forbice si è enormemente ridotta, se si considera che nel 2013 i vini francesi esportati generavano valore per un miliardo e 125 milioni di sterline e quelli italiani per 534 milioni. Il rapporto evidenzia inoltre un trend costante di crescita delle forniture italiane a livello di ricavi negli ultimi 5 anni.
Tutto questo nonostante ricarichi stimati in media al 40% da parte degli importatori, al 50% dai negozi e addirittura fino al 300% nei ristoranti, sullo sfondo di un interesse in piena ascesa per la cucina italiana e mediterranea. C’è spazio per crescere ancora, anche a valore.