Brera, Ziliani e il giornalismo del vino
[intro-text size=”25px”]Per sorseggiare un grande vino e comprenderlo ci vogliono tempo, profondità e cultura. Nell’ultimo decennio è cambiato molto il modo di scrivere di vino: tutto in 10 righe, in primo piano il marchio, zoom sul confezionamento, un cenno all’etichetta, un passaggio dedicato ai titolari dell’azienda e poi via a cicaleggiare d’altro. Non è sempre stato così. C’è stata un’epoca in cui il vino non era cronaca ma letteratura, l’epoca del grande Gianni Brera, innamorato dell’Oltrepò Pavese dei contadini.[/intro-text]
Un’era che una grande penna della critica enologica e gastronomica contemporanea, il giornalista e wine-blogger Franco Ziliani, curatore dei blog Vino al Vino (www.vinoalvino.org), Lemillebolleblog (www.lemillebolleblog.it) e Rosé Wine Blog (www.rosewineblog.it), ha rievocato nella mia mente con questo suo articolo: «Francamente parlando di Franciacorta e di Oltrepò Pavese» (che a definirlo post lo sminuirei).Lo rileggo con voi, insieme a questo grande pezzo tra giornalismo e poesia di Gianni Brera: «Il vino che sorride»…
Io guardo le mie colline e ne sorseggio sovente il vino per non dubitare dei miei maestri. Sono sbucato dottore in Strà Noeuva dopo avere discusso una solenne tesi di storia. Penso intenerito ai padri ligustini in viaggio verso occidente dalle stesse colline dove ha preso terra Noè, inventore del mosto; ai padri galli con la testa piatta; e alla propaganda romana che vorrebbe darla a intendere sulle esportazioni di viti in Europa. Vedo volare uccelli a miriadi e da loro cadere il seme che ha prodotto il tralcio fossile di Casteggio. Credo volentieri a Strabone, greco sincero e nient’affatto ministeriale, che ha scritto di noi: “Sono i migliori romani (cioè italici con cittadinanza) e hanno botti grandi come case”. Accetto un bisnonno al seguito di re Alboino e respingo il resto.
Guardo ogni volta commosso le colline pavesi, che sono il mio dolce orizzonte di pampini. La terra padana si ondula come un immenso mare sfrangiato in profili per me familiari fin dall’infanzia. Le onde sono di intenso verde e via via si fanno violette azzurre celesti fino a confondersi appunto, con il cielo. (…). Le colline emergono roride fuori dai bassi vapori di aprile. Lunghe trecce di filari ne compongono le strane e pur simmetriche pettinature. La vite è di un tenero verde a primavera: il grano di un verde metallico, quasi azzurrino. Poi si disegnano i riquadri ocracei ed è la mietitura. I temporali dilavano l’aria. Le colline si laccano talora di colori brillanti. Qualche costone è fatto calvo dal sole. Come le argille nude mettono sete, viene la vendemmia e i pampini arrossano ai primi brividi d’autunno. Macchie di querce e castagni oppongono terre bruciate, verdi marci, sontuose ocre gialle. E quando il gran soffio del fiume dirada la nebbia, appaiono i dossi bianchi delle colline sorprese dalla neve: ma spesso vi brilla il sole. Le acque dei nostri fiumi sono sinistramente gelide e mettono voglia di stufa. Le colline invece dilatano il respiro, sono imminenti e lontane, familiari e pur favolose. E il vino è la loro sintesi arcana.
Tempo di mirabolanti bottaggi – i ragò – con le costine di maiale e le verze. Sulla pinta longobarda è scritto “W Ada” in smalto azzurro. Ne ho pur mo’ spillata una piena, rabbrividendo quasi allo spisciolare vispo e inebriante del vino che odora vagamente di fragola. Ho deposto la pinta sulla cenere dove finisce la brace e lingueggia appena il fuoco. Sul vino nuovo si dissolvono eteri che prima di esalare galleggiano come scie sospette, lievemente appannate. Derubo mio padre ambizioso di cantina frugando a caso nella sabbia dove ha nascosto le bottiglie più estrose. Schizzi rivelatori di spuma allo schiocco del turacciolo strattonato quasi gemendo fuori dal vetro. Memorabili bracci di ferro con sugheri tenaci e riottosi. La sboccatura dell’olio sulla cenere del focolare evoca un battere improvviso di pioggia sulla strada polverosa di agosto. È l’adolescenza fatta ladra dallo storcere velleitario con la prima ragazzina e dalla fame che non crede, ancora, al sentimento. So che mia made ha contato i salami. Arrivo ad accorciarne uno enorme, affettandolo al centro e riannodando gli spaghi ogni sera. Barbacarlo un po’ bullo di spume e mandorlato; barberone che annega le papille in un amaro denso ma ghiotto. (…)L’amico oltrepadano di mio padre ha già fatto vendemmia. Ci attende sull’ultima capitagna con le scorbe d’uva allineate dietro di sé come un plotone rigido sull’attenti. Non chiediamogli di pesarle, è un’offesa. Tra poco nella sua casa di Canneto mangeremo salame trasudante lievissimo untume da fette precise e compatte; ravioli galleggianti nel brodo che occhieggia verde-oro grasso di cappone e biancostato; manzo brasato odoroso di aglio e di tenere cipolline; grana di Lodi con la goccia; uva verderea; dolce di pasta frolla. Sotto di noi, al ritorno, le rade luci della sera tremolanti nella pianura che ormai biancheggia di nebbia. E là prima solenne inciuccatura con gli anziani: ho dunque avuto un’altra promozione. (…)
Quando emigri, hai spesso nostalgia di mandorlati pieni rotondi, dai quali ti risvegli senz’aver cerchi alla testa; di moscati con pane e salame che anticipano la scoperta più raffinata ma piuttosto facile dei Sauternes con i patés. Se rientri al paese dirimpetto alle colline, idealizzi a tua volta il vin finu di Zeno Bergamaschi e Pipìn Brambilla, che è così pieno da allagarti le papille con strane sensazioni di acini vellutati di cera.
Quattro poderose linee di sangue convergono nella tua sete sempre gagliarda. Puoi rovesciare la frase e affermare che, bevendo sempre con molto impegno, saresti anche da porre fra i virtuosi che non hanno mai sete. Zio Pidrìn e zio Camill sono i primi paradigmi del bere con cauto ritegno o con poetico abbandono. Naturalmente la cautela consente bevute molto più solide. Zio Giacomo è lieto delle tue visite perché può sempre sturare quanto vino gli resti da sottoporre al tuo giudizio di esperto. E adesso senti come è razzente questo Sangue di Giuda!
Orgoglio d’un uomo è bere e capire sempre quel che si faccia, non solo bevendo. Prima attraversi a nuoto il Po traditore e la tribù ti promuove a vir in potenza. Ma sarai vero uomo se saprai bere mantenendo costantemente il cervello a pelo di brentina. Gino Agnelli, poeta, ti insegna a tradurre il pavese in italiano esaurendo poderosi “volumi” di Redavalle. Alla terza damigiana ci sarebbe già l’editore. Puoi anche dispensare consigli, allora. Maneggia la bottiglia con la circospezione di chi sposti un bucchero prezioso. Investi il cameriere con i tuoi stessi quarti di nobiltà ma troppo ignorante per sapere che una bottiglia di vino non è un’aranciata né una birra; che non si versa facendola glugluare, ma lentamente, così che non abbiano a sollevarsi le feci posate sul fondo. Impedisci a chiunque di riempirti il bicchiere rimasto a mezzo dopo l’ultima mescita: non vale dire che, tanto, è lo stesso vino: ogni bottiglia infatti ha una sua anima. Da come tratta la bottiglia, prima e durante la mescita, induci la cultura enoica del tuo ospite. Molta gente crede che bastino i quattrini per bere bene: si può bere anche male con vino ottimo, benché sia assiomatico e inevitabile il bere male con vino cattivo.
Risiedi a lungo in Francia e scopri l’organizzazione, la quale non può essere inciviltà. I francesi hanno selezionato le piante (ceps) e le vigne (crus). Il loro clima è più stabile del nostro, i loro vinificatori hanno potuto definire al meglio lo standard del vino prodotto. Essi fanno il vino con una tecnica insigne: spinta all’eccesso, lo priva tuttavia del suo carattere più sincero. Quando la tecnica di vinificazione è eccessiva, hai l’impressione, bevendo, di baciare una donna troppo truccata: sempre donna è, ma forse andrebbe meglio al naturale. Comunque, non esageriamo: una Venere priva di tecnica e di pulizia può disgustarti, così come ti può attirare una racchietta che almeno sia brava e pulita.
Impari in Francia che il sommelier è un’istituzione in decadenza ma ancora viva. Egli ti consiglia i vini secondo i cibi che hai scelto: stura alla tua presenza, versa con la debita cautela un bicchierino di prova: non te lo porge, lo lascia accanto al coperto o sul vassoio: aspetta di vedere se meriti veramente tanta attenzione: digli grazie e annusa con lieve movimento a spirale: deve bastarti il fiuto a capire: lui ti dice grazie a sua volta, se il vino è comme il faut, e confida in una mancia degna dei buoni consigli. Scopri che cambiar vino non è un pericolo, bensì una necessità se non proprio un dovere. Gli sbronzi del tuo paese contadino hanno inventato la comoda fandonia dell’ultimo bicchiere – diverso – che l avrebbe traditi. Si cambia qualità di vino per ogni cibo: agli antipasti, bianco secco freddo; per certi patés (terrines maison) buono anche il bianco con una vena di dolce, come l’hanno i bordolesi. E qui ricordo con orgoglio pane, salame e moscato delle mie colline; e poi le inebbrianti picchiate a valle, con il Po balenante riverberi sornioni dalle sue anse affondate fra i salici. Brillat-Savarin ha codificato: Vercesi e Brambilla non ne hanno sentito il bisogno: certe consuetudini, a loro, bastava goderle.
Sul pesce e sui frutti di mare, ancora bianco. Sulle rane -piatto forte pavese- bianco secco se sono fritte, Barbacarlo o Barbera se sono in guazzetto. Sulle lumache alla bourguignonne, nessuno ti vieta di preferire il rosso allo chablis o al pouilly; sulle lumache in guazzetto, come si fanno da noi, lascia dire i cerebrali e bevi rosso: polenta e vino bianco sono di accostamento difficile, a meno che non si tratti di Cinque Terre (dietro la cornice, quei liguri hanno le nostre abitudini, e mangiano un po’ più sapido perché l’hanno sull’uscio la flora odorosa del Mediterraneo).
Sulla carne, vino rosso e mai freddo. Qualcuno ostenta di pasteggiare a champagne: se ti accorgi che lo fa per strabiliare, digli che sa di turacciolo: non si merita altro.
Non ti formalizzare ai nomi né alle etichette: meglio un onesto plebeo di un nobile degenerato. Così, non spasimare sugli anni di cantina: certe solenni sturate sanno di liturgia e meritano rispetto: ma il vino, come le donne, è buono all’età giusta.
I francesi parlano di parfum per i bianchi e di bouquet per i rossi. Non siamo tanto pignoli: diciamo che un vino è profumato, che ha un aroma, se ce l’ha. I cugini dicono anche chaud d’un vino forte, alto di gradazione; complet di un vino che ha tutti i requisiti del suo standard; dur di un vino duro, senza velluto, che manca di moelleux, di morbidezza; enveloppé, involuto, per dire che scappa in bocca, non ha corpo, non è rotondo né pieno; frais, cioè fresco, quando vi è armonia fra tenore alcolico, acidità ed estratto (componenti tannici, salini, sospensioni fecali ecc.); fruité, d’un vino che sa veramente di uva; sec. secco, detto dei bianchi; vert, acerbo, che allega i denti.
Noi definiamo i vini con gli stessi aggettivi e con qualche altro, come pulito, fluido, liscio, razzente, amaro, abboccato, vivo, molle, spento, maturo, giusto, focoso, vellutato, denso, pesante, dotato anzi affetto di retrogusti, compatto, sincero…
Si capisce che si può bere anche senz’avere precisa cognizione di tutto questo: ma allora non si ha nemmeno il merito degli animali, che si dissetano bevendo gratuita acqua. E chi beve per mero vizio di gola o con fini distorti, subito lo vedi: gluglueggia con l’epiglottide come le bottiglie mal inclinate alla mescita: per delicato e nobile che sia, il vino se lo pompa come un oscena, birra: e si nutre di quello come potrebbe un amante della poesia mandando a memoria una composizione in lingua sconosciuta: i soli suoni non bastano: e così le sorsate.
Il vino va odorato con un lieve moto circolare del bicchiere, che lo arrubini e appanni prima di ricomporsi. Poi lo si accosta lentamente alle labbra e si alza in modo che la lingua ne sia ragionevolmente bagnata: papille gustative, terminazioni nervose delle gengive e delle guance, palato, retrobocca danno la misura del gusto, dell’acidità, del vigore e di tutte le doti o difetti che ho enumerato più sopra. Ma quando si sia definita la classe del vino, allora non bisogna indugiare troppo. Le ingenue ragazzole che centellinano sorso a sorso lo champagne, trattenendolo in bocca al punto da annegare le papille, quelle sono le più facili a perdere la tramontana. Il bere deve essere lento e continuo, quasi a formare sulla minor porzione di lingua un ruscelletto fluido e costante: meno si spande per la bocca e meno i vino ubriaca. Per contro, i bevitori ingordi si sborniano grossolanamente; ubriacarsi è quasi sempre disdicevole; inebbriarsi può essere bello ma è ben presto vietato agli abitudinari; bere, senza affogare il cervello è piacere sottile e raro, da veri specialisti.
Tutto questo ho imparato girando il mondo e soltanto il mio fegato può trovarci a ridire. Il troppo viaggiare mi annoia più del bere. Invidio chi ha scelto le colline per i suoi splendidi ozii. Sento che un giorno vi comprerò la vigna che a mia madre contadina ha negato un marito artigiano e povero, ma soprattutto meno poetico di lei. Potare e vendemmiare sarà il mio hobby squisito. Mi farò vigneron sulle tracce dei nostri migliori.
Il vino delle colline pavesi è da primato. Ho bevuto bottiglie di Frecciarossa in un ristorantino della Second Avenue, a New York. Stavano ancora abbattendo l’elevated e io rimpiangevo le quinte verdi che fanno orizzonte per quelli della mia riva. Fu come trovare un amico. Ho fatto conoscenza con un rosé dell’ Oltrepò che umiliava, al confronto, qualsiasi franciosa pelure d’oignon. Un bianco di Codevilla era Liebfraumilch di quello che per solito fa muggire i tedeschi di piacere e di orgoglio. Il Frecciarossa era Bordeaux di vellutata e rotonda fluidità; il bianco secco di Ballabio mi ricordava certe felici bevute in riva alla Mosella: nel Riesling di Santa Maria ho trovato un ricordo non vago di Dezaley, che è svizzero e – quello buono – mi pare degno di figurare fra i migliori bianchi del mondo: però costa un occhio, che non è il nostro caso. Di un piccolo vinaio mio amico, Carmine S., ho gustato un bianco non inferiore al muscadet dell’Anjou, e ancora un altro bianco, fluido e fresco, molto simile al Gumpoldkirken che bevo a Vienna dietro Santo Stofano.
Il barberone pavese, per berlo bene, qualche volta bisogna attaccarsi al tavolo: ma se matura un poco, perde arroganza e diviene pastoso e civile. Il Barbacarlo che un cugino monsignore prende a Broni, basta mescerlo per vederlo montare in superbia: e quel mussare di spume fini e veloci sembra una risata cordiale; poi è buono altro che storie!, e sarà l’infanzia, sarà la disposizione atavica, io di vini migliori ne ho pure bevuti e ne bevo, ma non ne trovo mai che mi piacciano sempre in egual misura, che siano altrettanto leali a qualsiasi livello. Certi vini, per prelibati che siano, mettono tanto in soggezione da non lasciarsi amare affatto: e se appena ti concedi qualche licenza, ecco che subito ti fregano gambe e cervello. Insomma, si va lisci: e sfido chiunque a dimostrarmi che parlo per il paìs.
Riconosco ad esempio che molte nostre vigne potrebbero dare di meglio: però in materia di rossi. I nostri bianchi sono qui per essere provati: in Italia hanno forse raggiunto lo standard più alto. Mi arrabbio moltissimo quando un gonzo, dei tanti che s’incontrano al mondo, pompa spumante pavese e, credendo di lusingarmi, sentenzia che “pare proprio champagne”. Fossi in Giovanni Ballabio e nei suoi colleghi enologi, smetterei di chiamare spumante il sublime compattissimo bianco ricavato da ceps ormai acclimatati da oltre mezzo secolo sui nostri colli: lo chiamerei vino di lusso pavese, e lo farei pagare quanto realmente vale, cioè caro, perché i piccioni riterrebbero di screditarsi, non cacciando molti quattrini per “una buona bottiglia”.
Sul rosso ho idee altrettanto perentorie: si faccia migliore il buono e si lasci correre in pipeline verso Milano il rozzo pinard di coloro che, poveracci, bevono anche per nutrirsi. In Francia, il buon vino si paga e val quasi sempre la spesa; dell’altro, si dice che è beaujolais, e se ne raccontano frottole affettuose: lo si chiama Moulin-à-vent, Fleurie, Morgon, Saint Amour o vin de l’année, semplicemente: e si giura che è splendido. Ora i francesi sono piuttosto avari e sanno cavarsela con signorile astuzia: ma il beaujolais che trovi in giro non è sempre meglio del meridionale che certi nostri compaesani lombardi bevono addirittura a fette, soddisfatti di arrivare presto e con poca spesa alla linea d’immersione. Sulle nostre colline si è badato un po’ troppo alla quantità. Poiché la qualità esiste, bisognerebbe esprimerla degnamente: e non temere di superare certi limiti di prezzo: chi sa il tempo perso e le delusioni della ricerca particolare (magari con la damigiana pronta nel bagagliaio), non farebbe mai questione di lire.
I francesi, che hanno saputo organizzarsi prima, impongono l’appellation controlée ai vini di certa classe. E tutto il resto chiamano genericamente pinard o beaujolais, che da noi, in Lombardia, sarebbe il nostrano o addirittura il “trani”. Anche dei nostri vini dovremmo controllare il tono e la marca, e andarne a cercare i nomi antichi, senza più ricorrere a prestiti artificiosi. L’abbiano portata i migratori del cielo o della terra, la vite cresceva da noi otto secoli prima che i romani si affacciassero in Val Padana. Se può bastare questo a darci il diritto di essere noi stessi vediamo di non regalare nulla a nessuno, magari illudendoci di prendergli qualcosa!
Ci vuole tempo sia a leggere Ziliani che a leggere Brera. Occorrono riflessione e concentrazione. Alla fine, però, entrambi t’insegnano qualcosa e ti lasciano con il desiderio di degustare le eccellenze di una terra che ha storia, identità e stoffa.
P.S. Grazie di essere arrivati fino in fondo. Per voi il vino è Vino!
Meritate un premio: per conoscere il vino preferito da Gianni Brera, il Barbacarlo, vi suggerisco l’ultimo libro di Valerio Bergamini: «Lino Maga anzi Maga Lino. Il signor Barbacarlo». Potete comprarlo alla Libreria Ticinum di Voghera (PV) oppure sullo shop online della Strada del Vino e dei Sapori dell’Oltrepò Pavese in abbinata a Guidando con Gusto.