Vino italiano e la fuga “in-dipendente”

[intro-text size=”25px”]Nell’Italia del vino c’è chi si sveglia una mattina e, dimenticando che esiste la Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti dal 17 luglio 2008, s’inventa manifestazioni come “Vino in-dipendente”, che si svolgerà nella sala polivalente di Calvisano (BS), domenica 2 e lunedì 3 febbraio.[/intro-text]

Sorvolando sulla scelta e la grafia del nome, tema sul quale si potrebbero aprire molte parentesi, sul sito degli organizzatori c’è il manifesto di quest’ennesimo gruppo di “virtuosi in barba agli altri”. L’impressione è che ormai sia una guerra tra colleghi, tra poesie e romanzi.
«Vino in-dipendente – si legge sul web – raggruppa vignaioli che difendono l’integrità del proprio territorio, attraverso una forte etica ambientale, per produrre vino che prevede il minor numero possibile di interventi in vigna e in cantina, attraverso l’assenza di additivi chimici e di manipolazioni innaturali da parte dell’uomo, che portano i vignaioli a correre molti rischi, che solo la grande conoscenza in vigna e in cantina può far superare».

E poi ancora: «Produrre vino naturale significa agire nel pieno rispetto del territorio, della vite e dei cicli naturali, limitando l’utilizzo di chimica e tecnologia in genere, dapprima in vigna e successivamente in cantina, conservando l’unicità del vino dall’omologazione che chimica, tecnologia e industrializzazione hanno portato nelle aziende vitivinicole. Scopo della manifestazione è promuovere il lavoro dei vignaioli che quotidianamente faticano a farsi sentire».

Insomma, ecco servita una bella clonazione di gran parte del pensiero di FIVI, eccezion fatta per il pistolotto sul concetto etereo del “vino naturale”, come se quelli degli altri produttori-contadini italiani di filiera fossero fatti con chissà quali intrugli e polverine al posto dell’uva.

“Vino in-dipendente” non è solo una manifestazione, ma un gruppo che ha queste intenzioni: aggregare chi dichiara il proprio processo di lavorazione nel rispetto della presente regola (boh?! ndr); stimolare la discussione tra produttori, scambiandosi esperienze e risultati raggiunti; ricercare il miglior equilibrio tra l’azione dell’uomo ed i cicli della natura; comunicare all’esterno la presente regola e le aziende che aderiscono alla stessa (mah?! ndr).

Nel lavoro in vigna il gruppo s’impegna a osservare questi principi: esclusione di diserbanti e/o disseccanti; esclusione di concimi chimici; utilizzo, per i trattamenti in vigna contro le malattie, di prodotti ammessi dalle norme in vigore in agricoltura biologica (in ogni caso sono esclusi tutti quelli di sintesi, penetranti o sistemici); utilizzo di preparati biodinamici e microrganismi effettivi; utilizzo di rame e zolfo per le malattie infestanti in misura contenuta a seconda delle annate (misura contenuta a seconda delle annate cosa vuol dire? ndr); vendemmia manuale.

Ci sono poi le regole per il lavoro in cantina: utilizzo esclusivo di lieviti indigeni presenti sulla buccia dell’uva ed in cantina nell’ambito d’una fermentazione spontanea; esclusione dell’apporto di qualsiasi prodotto di nutrimento, sostentamento, condizionamento quali possono essere le vitamine, gli enzimi e i batteri; esclusione di ogni sistema di concentrazione ed essiccazione forzata; esclusione di ogni manipolazione tesa ad accelerare e/o rallentare la fermentazione naturale del mosto e del vino (è consentito il blando controllo della temperatura di fermentazione eccetto la pratica di criomacerazione delle uve); esclusione di ogni azione chiarificante (bentonite, proteine animali o vegetali) e della filtrazione che altera l’equilibrio biologico e naturale dei vini (la massima filtrazione ammessa nei vini rossi è di 10 micron mentre nei vini bianchi è di 5 micron); esclusione totale dell’uso delle seguenti sostanze: scorze di lieviti, gomma arabica, mannoproteine, attivanti di fermentazione/starter, tannini enologici; esclusione della pratica di acidificazione dei mosti e di arricchimento con MCR; esclusione delle pratiche di osmosi inversa; l’anidride solforosa totale non potrà mai essere superiore a 60 mg/l per i vini secchi e 70 mg/l per i vini passiti.

Fermo restando che il nuovo codice di Hammurabi della vitivinicoltura/enologia del gruppo andrebbe verificato da qualche ente certificatore terzo ed autorizzato prima di essere ostentato presso il consumatore, al netto delle banalità che contiene e che andrebbero emendate in quanto scelte diffusissime nel mondo agricolo italiano “normale”, mi pare che stia sfuggendo di mano la situazione e così pure la rappresentazione di cosa sia il buon vino italiano.
Il mondo dei talentuosi vignaioli indipendenti di FIVI ha forse inconsapevolmente ispirato una serie di colorite fughe in avanti, tra il reale e il fantascientifico, del tutto estranee alla Federazione.
Quando si avrà il coraggio di porre un freno all’estemporaneità? Quando si capirà che a fare la differenza sul mercato sono prodotti tradizionali ben fatti, distintivi, di filiera e con una storia da raccontare? Quando si sancirà che i veri protagonisti da celebrare e raccontare, oggi, sono soprattutto i produttori fedeli all’identità del loro territorio che non scendono a compromessi sacrificando la qualità pur di vendere a prezzi da battaglia?

Si è poi così certi che tutti questi vini naturalissimi siano così più buoni e al giusto prezzo?
Forse, come cantava Lucio Dalla, l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale.

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