Caso FIVI sui dazi Usa, la replica di Fino: «Walter Massa esagera, la Federazione è nel giusto»

[intro-text size=”25px”]Dopo il mio articolo di ieri sulla dialettica accesa nella Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti dal produttore Walter Massa sulle colonne di WineMag.it, sulle strade dei social ho incontrato Michele Antonio Fino (nella foto), vignaiolo di Cascina Melognis di Revello, professore associato dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, rappresentante di FIVI presso il Mipaaf e già membro del comitato tecnico del CERVIM. Sua l’idea di lanciare la petizione contro i dazi sul vino italiano decisi da Trump attraverso la piattaforma Change.org (clicca qui per leggerne il testo…).[/intro-text]

Ho trovato interessante registrare il suo autorevole punto di vista sulla querelle di questi giorni attraverso un’intervista.

Fino, Massa dice che FIVI doveva schierarsi con tempestività, da subito, contro i dazi USA. E’ stato fatto?
«La presidente di FIVI, Matilde Poggi, ha preso chiaramente posizione come vignaiola contro i dazi di Trump firmando la petizione, ha scritto al commissario europeo per incalzarlo e ha invitato per iscritto i soci della federazione per invitarli a sottoscrivere a loro volta la petizione. E’ stato fatto tutto quello che si doveva».

Matilde Poggi, foto di Mauro Fermariello (Winestories)

Non ha ravvisato un po’ di titubanza a livello ufficiale?
«Per me FIVI ha agito. Guardi, dei dazi di Trump ho parlato con una mezza dozzina d’illustri commentatori e giornalisti italiani, dopo che la petizione sul tema ha ottenuto grandi consensi in poco tempo, ma nessuno ha voluto prendere posizione in merito, con scuse piuttosto estemporanee. La sensazione è che di fronte a una battaglia che non possa essere considerata sicuramente vinta in partenza, tanti tacciano e attendano l’evolversi degli eventi. C’è una non volontà di prendere posizione sul tema. Per qualcuno la battaglia italiana contro i dazi rafforzerebbe Trump nei suoi convincimenti. Figuriamoci…».

FIVI è o non è un sindacato?
«FIVI è esclusivamente un sindacato, non presta servizi ai suoi soci ma porta avanti solo battaglie sindacali. Dal mio punto di vista si può legittimamente, sia dall’interno che dall’esterno, pensare che si possa e debba fare di più ma a questa sua vocazione l’associazione non è mai venuta meno, perché è iscritta nel suo codice genetico. Mettere in correlazione il successo del Mercato di Piacenza con una riduzione dell’attenzione per le battaglie sindacali non è corretto».

Cos’ha fatto la Federazione sul fronte sindacale?
«E’ documentato il costante lavoro di FIVI sui tavoli politici, dov’è impegnata dai vignaioli che chiedono cose precise: la difesa dei vigneti eroici, regole nuove per l’accesso dei piccoli ai fondi OCM (fondi per l’internazionalizzazione di prodotto e di mercato ndr) e la battaglia per il voto nei consorzi. Su quest’ultimo punto ricordo ad esempio il percorso che si sta facendo con Regione Lombardia, la più sensibile al tema dal momento che il funzionamento del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese è un grave problema politico per l’amministrazione regionale lombarda».

Ma non si potrebbe fare di più?
«L’attività sindacale di FIVI è incessante, ma va ricordato che viene svolta da una federazione che ad oggi lavora solo con il volontariato sia della parte politica, cioè del consiglio, che degli associati. FIVI ha un collaboratore a partita iva e un ufficio stampa, punto. E’ ovvio che il volume di lavoro che si può sviluppare rispetto a sindacati agricoli con migliaia di dipendenti in tutta Italia e tante di sedi territoriali è diverso».

Dentro FIVI c’è spazio per chi, come Walter Massa, spinge di più sul tema del rafforzamento delle attività sindacali della Federazione?
«C’è assolutamente spazio e grande sensibilità per le richieste di Walter. Non ho alcun dubbio rispetto al fatto che nel primo consiglio utile le considerazioni di Massa, al di là di un po’ di amarezza personale per alcuni virgolettati a mio parere ingenerosi della sua intervista a WineMag.it, si discuterà dell’argomento. FIVI da luglio dell’anno scorso ha iniziato a strutturarsi con sedi locali, diventando ancor più operativa e visibile. Ciò che Walter Massa chiede di valorizzare è presente e sarà valorizzato. Non credo che lo strattone o la rampogna siano lo strumento per far crescere più rapidamente questa istanza».

Quali sono le priorità di FIVI?
«Ce n’è una sola: il meccanismo di voto e di espressione all’interno dei consorzi di tutela. Oggi è uno strumento di governo molto efficiente nel dare il giusto peso alle quantità prodotte ma è inefficiente per garantire una rappresentazione democratica delle esigenze di chi magari ha produzioni più limitate però ha qualità notevole. Attualmente non si favorisce una partecipazione ampia ai lavori. Il criterio quantitativo dev’essere mitigato, come noi abbiamo organicamente richiesto, da un criterio democratico».

Può fare un esempio pratico per aiutare a capire chi non è del settore?
«Prendiamo in esame quanto accade all’interno dell’Unione Europea. Nel consiglio UE se si votasse solo per numero di abitanti Malta e Lussemburgo potrebbero anche non partecipare, gli eletti risparmierebbero il costo dei voli aerei e non cambierebbe nient’altro. Invece si vota con una componente che richiede la maggioranza dei paesi, indipendentemente dal numero di abitanti, e una componente che invece dipende dal numero dei residenti dei paesi. Si ottiene così un sistema mediato che fa sentire a tutti di contare e di essere coinvolti. Oggi nei consorzi si premiano solo le quantità prodotte e dunque non è interessante partecipare al loro funzionamento per chi ha volumi piccoli o non è organizzato in grandi concentrazioni con il voto delegato, come le cooperative. Questo è il vulnus».

Devono essere i piccoli ad assumere il controllo dei consorzi?
«No, non si vuole questo. Si ritiene che i consorzi debbano assolutamente avere riguardo delle quantità prodotte, ma riteniamo che per un efficace svolgimento delle attività consortili si debba perseguire con ogni strumento la massima partecipazione dei singoli produttori ed è questo che chiediamo alla politica. FIVI non si mette in contrapposizione alle cooperative che peraltro dominano consorzi fondamentali, pensiamo oltre al caso già citato anche a Soave, Valpolicella o alla Romagna. Si chiede semplicemente di valutare se non abbia senso che tutti, dal più piccolo al più grande, sentano di essere importanti. L’emorragia dai consorzi è un problema di per sé. Non è che si può liquidare tutto come qualcuno pensa con la formula sbrigativa “se ne vanno via, comandiamo noi”. E non è che puoi fare spallucce di fronte al problema perché comunque ti tieni l’erga omnes (meccanismo ministeriale che impone a fronte del raggiungimento di determinate percentuali di rappresentatività a soci e non soci di concorrere in proporzione alle spese per le attività di vigilanza e promozione delle denominazioni tutelate messe in atto dai consorzi ndr). Così non funziona».

Piccoli e grandi hanno esigenze diverse? Cosa pesa di più al piccolo produttore?
«Tendenzialmente se uno si mette in proprio lo fa perché vede la possibilità di valorizzare il proprio lavoro, dunque ha una componente individualistica che lo pone in una logica diversa rispetto a quella della grande concentrazione. Certamente i piccoli hanno esigenze diverse, ma il vignaiolo e produttore di filiera FIVI non è un soggetto che ha bisogno di qualcosa in particolare. E’ nel momento in cui i consorzi mettono mano a regole e a modifiche dei disciplinari, soltanto lì i vignaioli vorrebbero poter contare in qualche maniera. Oggi il meccanismo è tale per cui è mera rappresentanza non è rappresentatività. Si può andare in assemblea a dire la propria, certo, ma le regole sancite dalla legge sono tali per cui in alcune realtà uno o due soggetti votano e decidono tutto».

Va così ovunque, oppure no?
«La storia insegna che laddove mancano le grandi concentrazioni, come vale per alcuni consorzi di noti vini piemontesi, si ha un livello di condivisione delle decisioni molto più diffuso e questo favorisce un’evoluzione delle denominazioni meno orecchiante alle esigenze dei grandi gruppi e di un mercato che cambia anche da un giorno all’altro: alle volte a seguirlo ci si taglia la possibilità di fare il proprio lavoro sul lungo periodo. FIVI non crede, per farla breve, come invece paventano sempre i sostenitori delle grandi concentrazioni, che a condividere di più si lavori per forza peggio o non si sia “responsive” nei confronti del mercato».

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