Crisi del vino italiano, un settore alla deriva senza una visione di futuro
Sul panorama economico attuale il mondo del vino italiano sta vivendo una crisi senza precedenti dal dopoguerra ad oggi e sta avvenendo nel silenzio. Parliamoci chiaro: i consumi interni sono in calo e anche l’export non brilla come accadeva fino al periodo pre Covid. Quella che una volta era una delle nostre punte di diamante rischia di diventare l’ennesima vittima di un sistema che non sa innovarsi e di un governo che non capisce le necessità del comparto. Troppo didascaliche e vuote le dichiarazioni del ministro Francesco Lollobrigida, nei giorni scorsi ospite del Meeting di Rimini. Ha voluto che la sua delega fosse alla “Sovranità Alimentare”, ma di sovranità se ne respira ben poca.
Ma perché il vino, simbolo della nostra cultura e della nostra tradizione, è in crisi? La risposta è semplice e amara: non basta più puntare solo su qualità e tradizione. Oggi il settore deve fare i conti con una realtà economica e sociale che è cambiata radicalmente. E qui, il nostro Paese, con tutta la sua retorica sul made in Italy, è rimasto indietro.
Il problema di fondo è che il mondo del vino continua a essere gestito – salvo rare eccezioni – come un settore rurale, un piccolo mondo antico, quando in realtà dovrebbe evolversi verso un modello industriale. Basta con il romanticismo del contadino che produce poche bottiglie per una nicchia di estimatori, perché le nicchie diventano loculi. Il vino dev’essere un’industria, con una filiera moderna, efficiente e capace di competere sui mercati globali.
Ma attenzione: questo non significa tradire la nostra tradizione. Al contrario significa valorizzarla con gli strumenti del presente. Un esempio? In Francia i grandi produttori sono riusciti a trasformare il vino in un simbolo di lusso e di stile, aprendosi al contempo a mercati emergenti e utilizzando al meglio le nuove tecnologie. E noi, invece, cosa facciamo? Ci lamentiamo delle tasse, delle restrizioni, della burocrazia, senza però fare nulla di concreto per cambiare. Ve lo ricordate il “movimento dei trattori” prima delle ultime elezioni europee? Cos’hanno ottenuto i manifestanti a parte tanta notiziabilità mediatica?
E poi, c’è un altro punto cruciale: il potere d’acquisto delle famiglie. Parliamoci chiaro: il vino, così come la ristorazione, rientra nel mercato dei beni voluttuari. Se la gente non ha soldi, non compra vino. È semplice. E allora come si può pensare di rilanciare i consumi senza ridare respiro alle famiglie italiane? Un governo serio dovrebbe prima di tutto mettere mano al portafoglio degli italiani, restituendo loro la capacità di spendere.
Serve al contempo una politica capace di accompagnare il cambiamento, di capire che il vino non è solo cultura, ma anche business. Un business che, se gestito bene, può ancora fare la differenza perla nostra economia, da Trieste a Palermo. Per fare questo servono coraggio, visione e una classe dirigente che abbia voglia di sporcarsi le mani ma a partire da meritocrazia, competenza e una visione nuova altrimenti prepariamoci a vedere il nostro amato vino relegato ai margini del mercato globale, con buona pace di chi ancora crede che basti un’etichetta per fare la differenza.
Se il mondo del vino italiano vuole salvarsi, deve cambiare. E deve farlo ora. Perché nel mercato globale di oggi, chi si ferma è perduto. E noi, di perduti, ne abbiamo già avuti abbastanza.
Emanuele Bottiroli