L’Italia del vino a “meritocrazia zero” che lascia l’Amarone in bocca
[intro-text size=”25px”]C’è una storia incredibile che riempie, in queste ore, le cronache del bizzarro mondo del vino italiano. Al centro c’è una vicenda, quella delle ex Famiglie dell’Amarone d’Arte, che meriterebbe di non rimanere relegata nel recinto delle testate e dei blog di settore ma che dovrebbe, al contrario, essere studiata al Mipaaf, per trovare subito una via d’uscita con scelte coraggiose e concrete capaci di giungere a una pacificazione nel settore.[/intro-text]
A fare lucidamente il punto su quanto accaduto è il giornalista Emanuele Scarci che su Cronachedigusto.it e sui suoi canali social informa i lettori che la contesa fra l’associazione d’importanti produttori e quello che dovrebbe essere il loro Consorzio finirà in Cassazione.
Scarci scrive: «Lo scorso ottobre la sentenza della Corte d’appello di Venezia, respingendo il ricorso delle Famiglie Storiche, ha ravvisato gli estremi della concorrenza sleale e ha vietato l’utilizzo del nome “Famiglie dell’Amarone d’Arte”. Ha quindi disposto la nullità del marchio e del Manifesto dell’Amarone d’Arte».
L’associazione Famiglie Storiche è nata nel 2009 e conta 13 soci: Allegrini, Begali, Brigaldara, Guerrieri Rizzardi, Masi, Musella, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Torre D’Orti, Venturini e Zenato. Oggi a presiedere il sodalizio è Alberto Zenato.
Scarci ricorda: «Sulle ragioni della rottura tra Consorzio e Famiglie storiche ci sarebbe, secondo quest’ultime, il ruolo preponderante svolto dalle cooperative. I voti delle cooperative sarebbero alla base di politiche della qualità inaccettabili. Inoltre negli ultimi anni il Consorzio avrebbe favorito l’estensione dei vigneti fino agli oltre 8 mila ettari attuali, +30% nell’ultimo decennio. Oggi i soci del Consorzio sono 2.300, di cui 300 aziende imbottigliatrici. Il Consorzio respinge gli addebiti sul fronte della qualità dell’Amarone, mentre nel 2019 il presidente Andrea Sartori ha varato una serie di restrizioni produttive, anche con un nuovo disciplinare, che dovrebbero consentire di venire a capo dell’iper produzione».
Allo scorso dicembre, Cantina Italia segnalava in fase di affinamento 462 mila ettolitri (+15% in un anno) di Amarone, pari a 57 milioni di bottiglie di Amarone, più o meno corrispondenti a quattro annate.
Scarci rileva: «L’Amarone è business lucroso. Si producono ogni anno circa 13 milioni di bottiglie con un giro d’affari al consumo di 334 milioni di euro (prezzo medio 25 euro a bottiglia). Il 65% è destinato all’export».
Fin qui la puntuale cronaca di quanto accaduto. Cosa succede? Succede che i primi due gradi di giudizio hanno visto prevalere il Consorzio, fondamentalmente perché per la legislazione vigente un nome di denominazione appartiene alla collettività che lo rivendica in etichetta e non può essere usato da un club privato che si collochi al di sopra dell’intero insieme dei produttori. Insomma: non può esistere una serie A e una serie B. Chi usa un nome di denominazione nel rispetto del disciplinare non può essere dipinto come inferiore rispetto a chi, pur adottando regole più restrittive e aderendo a un manifesto di valori, fonda un’associazione privata per elevare quella stessa denominazione.
Non è il solo caso in Italia, potrei raccontarvene altri, ma certamente si tratta di quello più eclatante poiché tocca una produzione top che cerca di non farsi cannibalizzare. I consorzi, interrogati a varie riprese da giornalisti e commentatori, spiegano a ogni piè sospinto di non avere strumenti per arginare scivolamenti al basso dei prezzi e della qualità, tuttavia in Italia hanno titolo d’incazzarsi “a norma di legge” con coloro che sono paladini della qualità e dell’immagine, associate a denominazioni che hanno contribuito con investimenti e sacrificio a rendere “brand”.
Qui non si parla d’improvvisati che si svegliano una mattina inventandosi un partito, un sito Internet o una spilla d’appuntarsi sul petto per sentirsi più alti di un centimetro. Qui si sta parlando di case vinicole che hanno detto “no” a certe politiche che hanno rischiato di fiaccare la performance, anche solo nel percepito, di una delle denominazioni d’origine italiane più apprezzate anche oltre confine.
Come mai le Famiglie Storiche avevano ragione? Perché il Consorzio le ha perseguite per il loro vecchio nome salvo poi, come raccontano le cronache, correre ai ripari e chiudere le porte della stalla a buoi in parte scappati. Come racconta l’ottimo Scarci, scattando la sua istantanea, il tema che ritorna è quello della cooperazione e del suo peso. In nome del “tanto” (fortunatamente non sempre) spesso si asfalta il “buono”, ciò che ai territori dà immagine, standing e reputazione. La sensazione, magari sbagliata, è che il merito venga perseguito e non trasformato in ispirazione.
Il mondo del vino italiano caro a Gino Veronelli o a Gianni Brera era fatto d’identità, profili alti, produzioni scarse numericamente ma irripetibili e portatrici di valori. In generale oggi il mondo del vino italiano è forse più governato a suon di martellate delle lobby, del più forte, del più “grosso” e non del più “grande”. Non si discute per trovare un punto di sintesi, si sale sulla bilancia per vedere chi pesa di più. Forse il caso delle Famiglie Storiche, in attesa del responso della Cassazione, si potrà ricomporre al fotofinish con una proposta di conciliazione di cui parla Clementina Palese nel suo articolo oggi su WineNews, ma qualcosa proprio non va.
Di fronte a un malessere che non interessa solo la zona dell’Amarone, il Ministero delle Politiche Agricole va per la sua strada e sta lanciando un nuovo tavolo per il quale domani chiamerà a raccolta la filiera… La solita montagna che partorisce un topolino? Il solito tavolo del “non fare oggi ciò che potresti fare domani”? Conviene rileggersi il pensiero di FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti) e per stemperare la tensione sorseggiare un calice… ad esempio un Farfalla Extra Brut di Ballabio, un Metodo Classico base Pinot nero che nasce sulle colline di Casteggio, una serie limitata che sa emozionare. Di queste etichette da chiedere e scoprire è fatta l’Italia del vino che merita di essere valorizzata.
Tutto il resto lascia l’Amarone in bocca…