Metodo Classico Italiano, il talento che c’è ma non brilla nel mondo

[intro-text size=”25px”]Il clima di festa di Natale e Capodanno, le rosee statistiche e gli sfavillanti servizi dedicati alle etichette consigliate non bastano a nascondere un’amara realtà che sembra immutabile: il Metodo Classico italiano è una somma di province che i grandi mercati non conoscono, sebbene Franciacorta, Trento Doc, Alta Langa e Oltrepò Pavese avrebbero tanto da dire nel mondo. I produttori restano vittime, pur con sfumature, numeri e risultati di mercato molto diversi, di una parcellizzazione che se da un lato offre la possibilità del racconto singolo delle peculiarità di zona, dall’altro è fuori dal tempo e dallo spazio: su un mercato sempre più globale, così facendo non è possibile avere la massa critica per andare con forza ad affermarsi nel mondo.[/intro-text]

In altre parole la comprensione di questo pilastro della cultura enologica italiana è fortemente limitata dai campanili. Vincono sempre più solo i marchi di cantine delle zone di produzione anziché la chiara percezione del Metodo Classico italiano: un concetto che farebbe bene anche ai produttori più piccoli, ma che nella mente dei winelovers non esiste. Tutte le bollicine italiane vengono spesso genericamente chiamate Prosecco, fuori e dentro i confini nazionali, benché si tratti di una denominazione diversa per territorio, uve, metodo, specificità, volumi e dinamiche di produzione.

Nessuno sembra più essersi posto di risolvere il problema dopo un tentativo abortito chiamato “Talento”. Una storia da rileggere, facendo un passo indietro.

Tutto inizia con l’Istituto Italiano Metodo Champenois fondato nel 1975 dai produttori Antinori, Carpenè, Contratto, Ferrari, Gancia e La Versa, con lo scopo di promuovere e tutelare la spumantistica italiana di qualità. L’Istituto cambia nome nel 1996, facendo seguito alla registrazione del marchio “Talento”, ideato per rappresentare in Italia lo spumante Metodo Classico, in quanto la menzione Champenois è ora consentita solo nel territorio francese. Fino al 2004 l’Istituto ne conserva l’uso esclusivo, quindi solo le aziende associate possono fregiarsi della menzione “Talento” sulle proprie bottiglie di spumante. A cambiare tutto interviene il decreto del 30 dicembre 2004, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.12 del 17 gennaio 2005, che dà a tutti i produttori la possibilità di fregiarsi del marchio: “La menzione Talento, indicante una qualità superiore ai sensi del regolamento CE n.1493/1999, allegato VIII, sezione E, paragrafo 8, è riservata e protetta esclusivamente per la designazione e presentazione dei Vini spumanti di qualità prodotti in regioni determinate (Vsqprd) e dei Vini spumanti di qualità (Vsq) italiani elaborati con il Metodo Classico”.

L’Istituto Talento Italiano, associazione di aziende costituita il 15 luglio 2009 allo scopo di «promuovere la notorietà e l’immagine del Talento quale spumante di sicura origine italiana ottenuto in conformità al Decreto del Talento del 30 dicembre 2004 (sostituito dal decreto del 13 maggio 2010)» (art. 2 dello Statuto) è l’ultimo tentativo istituzionale di mettere tutti insieme.

Per capire il perché del naufragio del progetto bisogna ricordare che inizialmente la natura proprietaria del marchio Talento aveva spinto alcuni produttori a rimanere ancorati a progetti territoriali, come ad esempio quello del Classese, creato nel 1984 in Oltrepò Pavese.

Nella seconda metà degli anni novanta il progetto Talento era stato inoltre messo alla prova in un contesto in cui la Franciacorta muoveva i primi passi, dopo aver ottenuto nel 1995 la DOCG (denominazione d’origine controllata e garantita), lasciando già intravedere quegli elevati tassi di crescita diventati poi una costante nel corso degli anni 2000.

La vicenda dell’Istituto si conclude con la cessione nel 2004 del marchio al Mipaaf: la trasformazione da marchio privato di associazione a “bollino istituzionale” dà il colpo di grazia al progetto, anche perché ogni zona (in particolare la Franciacorta) da lì in poi ha preferito puntare su una propria strategia di marketing, con esiti differenti.

Senza dover dare la colpa a nessuno, in fondo ognuno ha fatto la sua storia nel bene e nel male, la scottatura del “Talento” è stata così grande che nessuno ha più voluto tentare una strada comune. La politica, forse, non aveva compreso fino in fondo le esigenze del sistema impresa e i diversi modelli di business in campo, tuttavia da quel naufragio la tavola rotonda dei produttori italiani di Metodo Classico non si è mai creata.

A beneficiare di questa babele è oggi la Champagne, in un trend di crescita pressoché costante sul mercato italiano dopo la crisi del 2008, che segnò un brusco calo nelle vendite. Nel 2008 le vendite di Champagne in Italia, che fino ad allora si attestavano attorno a 10 milioni di bottiglie annue, subirono un crollo a causa della crisi e arrivarono a quota 5 milioni e 400 mila bottiglie. La situazione cominciò a migliorare gradualmente nel 2012, fino ad arrivare ai numeri attuali: circa 7 milioni e 600 mila bottiglie. Se in termini di volume l’Italia resta un mercato target importante (settimo a livello mondiale, escludendo la Francia), lo è ancora di più in termini di valore, per cui si posiziona in quinta posizione: gli italiani non solo consumano tanto Champagne, ma lo acquistano anche di qualità elevata.

Attualmente la Champagne, territorio il cui cuore si trova a 145 chilometri da Parigi, è una denominazione forte di 33.762 ettari (4% della superficie a vigneto della Francia) e 309 milioni di bottiglie all’anno, circa il 13% del consumo globale di vini spumanti. Lo Champagne viene esportato in 190 paesi del mondo. L’unione ha fatto la forza, in termini di marketing e percezione mondiale, senza affatto distruggere la distintività: ci sono infatti 320 cru, ognuno dei quali ha un suo profilo specifico che viene raccontato e tradotto in strumento di ulteriore specificità agli occhi del consumatore.

Il narcisismo dell’Italia del Metodo Classico e la rivalità fra vicini di casa è imparagonabile a quanto accade in Francia, dove lo spirito di gruppo nel reciproco interesse produce valore su scala globale. E’ anche per questo che illustri opinionisti del settore, come il giornalista e blogger Franco Ziliani, si mettono a ridere quando sentono parlare di “Champagne italiana” o variopinti concetti similari. Gli spumantisti italiani della più alta gamma si condannano a esportare poco e a più basso prezzo dei cugini francesi, quando invece la loro qualità e la loro storia meriterebbero davvero ben altro. Oggi il talento nell’Italia del Metodo Classico c’è, ognuno ha il suo genius loci, ma resta confinato in poche carte dei vini che parlano una sola lingua. 

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